Giuliana Sgrena,
Il Manifesto's Baghdad correspondent who was shot and wounded by US troops, published her reflections on "la guerra che uccide la comunicazione," the war that kills communication:
Ho vissuto in una enclave in cui non avevo più certezze. Mi sono ritrovata profondamente debole. Avevo fallito nelle mie certezze. Io sostenevo che bisognava andare a raccontare quella guerra sporca. E mi ritrovavo nell'alternativa o di stare in albergo ad aspettare o di finire sequestrata per colpa del mio lavoro. «Noi non vogliamo più nessuno», mi dicevano i sequestratori. Ma io volevo raccontare il bagno di sangue di Falluja dalle parole dei profughi. E quella mattina già i profughi, o qualche loro «leader» non mi ascoltavano. Io avevo davanti a me la verifica puntuale delle analisi su quello che la società irachena è diventata con la guerra e loro mi sbattevano in faccia la loro verità: «Non vogliamo nessuno, perché non ve ne state a casa, che cosa ci può servire a noi questa intervista?». L'effetto collaterale peggiore, la guerra che uccide la comunicazione, mi precipitava addosso. A me che ho rischiato tutto, sfidando il governo italiano che non voleva che i giornalisti potessero raggiungere l'Iraq, e gli americani che non vogliono che il nostro lavoro testimoni che cosa è diventato quel paese davvero con la guerra e nonostante quelle che chiamano elezioni.
Ora mi chiedo. E' un fallimento questo loro rifiuto? (emphasis added, Giuliana Sgrena, "La mia verità," Il Manifesto, March 6, 2005)
I now live with no more certainties. I find myself deeply weak. I failed in my belief. I had always claimed there was need to go tell about that dirty war. And I had to decide whether to stay in the hotel or . . . chance being abducted because of my work. "We don't want anyone any more," the abductors told me. But I wanted to tell about the bloodbath in Falluja through the refugees' tales. And that morning the refugees and some of their "leaders" didn't listen to me. I had in front of me the evidence of what the Iraqi society has become with the war and they threw their truth in my face: "We don't want anyone. Why don't you stay home? What such interview can be useful for?" The worst collateral damage, the war killing communication, was falling on me. On me, who had risked it all, challenging the Italian government that didn't want reporters gong to Iraq, and the Americans who don't want our work that gives witness to what that country has really turned into with the war, despite what they call elections.
Now I wonder. Is their refusal a failure? (emphasis added, Giuliana Sgrena, "My Truth (La mia verità)," trans. Eva Milan, Online Journal, March 6, 2005)
Giuliana Sgrena, donna di pace
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